Tirare una riga fra ciò che è etico e ciò che non lo è, può apparire arrogante.
D’altra parte, se non c’è LA riga considerata valida da tutti, valgono le singole opzioni.
Ognuno propone il proprio criterio come IL criterio e si autocertifica come appartenente alla categoria degli etici.
Corro volentieri il rischio di apparire arrogante, pur di evitare quello opposto, che dice che siccome non c’è LA riga, allora ogni riga va bene.
Il relativismo etico non produce più libertà ma legittima la legge del più “forte” (più furbo? più potente? più immanicato? ecc.).
La consulenza è un atto di fiducia e dunque un atto contraddittorio.
La fiducia infatti è contemporaneamente:
- punto di partenza (mi fido, confido nel fatto che mi sarai utile, che mi aiuterai) e
- punto di arrivo (www.etimo.it: Fidùcia da Fìdere aver fede – Credenza e speranza in persona, o anche nel buon senso di checchessia, fondate su segni o argomenti certi o molto probabili).
La consulenza è una relazione, dunque un atto complesso.
Il timore di perdersi e la voglia di abbandonarsi si sovrappongono, il bisogno di controllo e il bisogno di farsi aiutare devono trovare il modo di convivere.
Quanto più cliente e consulente riescono a parlarsi di queste dinamiche, tanto più la relazione si fa trasparente e utilmente libera da impliciti e fraintendimenti.
La consulenza è una relazione, le parti devono imparare a conoscersi.
Il cliente ha il sacrosanto bisogno di capire se può fidarsi, se sarà davvero aiutato…
«Non posso acquistare al buio, con i miei clienti interni e con il mio capo la faccia ce la metto io!»
Per fare questo cercherà segni o argomenti certi o molto probabili…
«Conosco questo consulente? Da quanto tempo lavora? Con chi sta lavorando? Qualcuno può parlarmi di lui? Posso sperimentarlo a basso costo/rischio?»
Il consulente ha bisogno di capire se la domanda del cliente è davvero “consulenziale”:
«Confida nel fatto che posso aiutarlo? È interessato a capire chi sono? Ha voglia di avermi accanto? Comprende e condivide l’approccio che utilizzo nel mio lavoro?»
Comprendiamo i timori dei clienti ma per imparare a fidarsi occorre iniziare a fidarsi…
La consulenza è immersa anche nel mondo commerciale, quello dello scambio.
Non sempre è chiara la differenza c’è fra un oggetto, un bene, un servizio…
Talvolta si acquistano dei servizi con le modalità tipiche degli oggetti, altre volte si chiede aiuto ma si prescrive il come riceverlo…
«Ho bisogno di te perché non so come si fa, ma devi farlo come dico io!»
Altre volte il contesto commerciale fa prevalere la dimensione delle forze in campo…
Chi ha il coltello dalla parte del manico? Quanti formatori ha a disposizione il cliente per un solo progetto? A chi conviene di più non far irritare l’altro? Chi ha più bisogno di chi?
Proviamo a pensare a come maneggiamo differentemente altre professioni: cardiologo, idraulico… Forse perché in quel momento ci sentiamo bisognosi e deboli, in balia dell’evento e l’altro diventa “il salvatore”?
Altre volte ancora il contesto commerciale fa prevalere le abitudini dei singoli mercati. Nessuno si sognerebbe di dire al proprietario di una pizzeria:
«Prima vengo 1 o 2 volte a mangiare la pizza qui, senza pagarla, poi quando avrò deciso che “mi fido” negozierò il prezzo e comincerò a frequentare il suo locale. D’accordo?»
Normalmente i ristoranti si sperimentano, se piacciono si ritorna, se non piacciono si evitano.
Nel mondo della consulenza e della formazione si sono stabilite delle modalità di acquisto/vendita così differenti che nella mia vita talvolta mi sono sentito un cardiologo, altre volte un pizzaiolo, altre ancora un aspirante attore che per ottenere una parte avrebbe dovuto fare alcune comparsate gratis al fine di convincere il produttore di turno.
Io cerco di prendere in considerazione i bisogni dei clienti ma cerco anche di capire “cosa” vedono i clienti, quando mi guardano.
Ascolto tutte le richieste che il cliente mi fa per riuscire a fidarsi di me, vorrei che anche il cliente ascoltasse le mie.
«Se mi vuoi trasformare in un altro, forse hai bisogno di un altro…» diceva quel tale…
Richiedere una consulenza significa chiedere a qualcuno, liberamente e consapevolmente, di aiutarci
ad individuare, definire, progettare, perseguire e (auspicabilmente) ottenere dei risultati, potendo rinunciare in qualsiasi momento a questa richiesta e potendo, questo qualcuno, rinunciare anch’egli, se lo ritiene opportuno, a fornirci l’aiuto previsto.
La consulenza è un “oggetto” di per sé, talvolta invece alcune attività consulenziali (individuare, definire, progettare) vengono confuse con “tentata vendita”, “investimento commerciale”, “rischio imprenditoriale”, ecc.
La ragione di questa “confusione” sta ancora nella metafora “mercantilistica” che accompagna il nostro campo professionale.
Purtroppo, parecchi consulenti, pur dichiarando di volerne prendere le distanze, rivendicando la funzione “terapeutica” del nostro mestiere, spesso la incentivano con i loro comportamenti. Difficile tenere una linea “trasparente”…
Chi fa finta di regalarti “qualcosa” te la farà pagare abbondantemente in altra occasione…
ammesso che non l’abbia già fatta pagare a qualcun altro (cioè te la sta riciclando…).
Eppure questo comportamento sembra “pagare” sul terreno relazionale.
Il gioco commerciale spesso si risolve in un “ping-pong manipolatorio”, dove ognuno pensa di aver vinto ma al cliente va data la sensazione di aver “vinto di più”.
Rendere pubbliche e trasparenti le tariffe per me ha sempre significato costruire relazioni trasparenti, voglio che il cliente possa decidere per cosa, quando e perché sta spendendo le proprie risorse economiche.
Fermo restando la prima fase dove dobbiamo conoscerci (scambio di informazioni circa: approcci, riferimenti culturali, esperienze passate, ecc.) da quando comincio a “lavorare”, lì comincia la mia azione consulenziale.
Non posso certo dire al cliente «fatti vedere quando hai le idee chiare», perché il consulente serve anche a chiarirsi le idee…
ed è ragionevole che un progetto preveda “n” release prima di quella definitiva (non sono “tentativi andati a male”, sono parte importante del processo diagnostico), non fosse altro perché capendo si interviene ma intervenendo si capisce…
Il cliente utilizza le proposte del consulente per precisare la sua diagnosi.
Io considero il processo che conduce alla proposta, parte della mia azione professionale e in quanto tale ha un valore che non può essere riconosciuto a patto che la proposta sia accettata, non avendo io il controllo delle variabili che portano all’approvazione del progetto o alla sua sospensione (il budget, la congiuntura, casa madre, ecc.).
«Il progetto è saltato, mi spiace, grazie della collaborazione…», non è compatibile con una relazione trasparente, è furto con destrezza…
Nel ruolo di consulente, mi candido ad aiutare i miei clienti a costruirsi la diagnosi. Se poi la proposta riguarda un’attività formativa, su alcuni temi mi candido anche a realizzarla nel ruolo di formatore.
Alcune volte le diagnosi sono già prodotte dal cliente e parto direttamente dal ruolo di formatore.
Altre volte il cliente sa già che in fondo al processo ci sarà un’attività formativa che intende affidarmi, questo non toglie che se la diagnosi va definita o anche solo precisata, occorre fare un’azione consulenziale a monte.
Lo step consulenziale non è quindi una “demo seduttiva”, è azione professionale in sé.
Per professione aiuto, e facendo ciò dimostro di saperlo fare, non posso dimostrare di saperlo fare prima di farlo.
Ai miei potenziali clienti non ho mai fatto firmare contratti che li impegnano all’acquisto nel tempo, voglio essere certo di essere scelto ogni volta, liberamente.
Chiedo di condividere alcuni principi, tutto qui.
Talvolta qualcuno lo ha interpretato come arroganza, rigidità o addirittura avidità, per me altro non è che rispetto profondo, per la mia professione e quindi, per i miei clienti.