Una delle cose che mi colpisce di più durante i miei
è vedere come molte persone si siano costruite l’idea della gestione dei collaboratori come di un’area di lavoro che ha regole tutte sue e che devono essere assunte e applicate.
In un certo senso come di una cosa estranea, esterna, come fosse una borsa.
E quindi un’idea di capo (o di people manager, come fa più fino dire oggi) come di una Persona chiamata ad applicare queste regole alla stregua di uno spartito musicale scritto da altri.
Complice la formazione manageriale che in questi decenni ha portato in aula svariati modelli, la gran parte centrati su se stessi e fondati su dogmi, e che ha proposto ai partecipanti sostanzialmente con una sola formula: “non fare come fai tu, fa’ come ti dico io!”.
Il bravo capo è quello che fa queste cose.
Il bravo partecipante è quello che le impara velocemente.
Il bravo formatore è quello che gliele spiega bene, in fretta e divertendolo. Se poi lo fa senza dare l’impressione di farlo, meglio ancora: promosso a facilitatore!
Osservo, durante questi incontri individuali, come le persone si accorgano di essere state raggirate per anni.
Mi riempiono di gioia quando scoprono che quelle cose “da non fare” invece parlano di loro, li riguardano, che questi comportamenti vanno capiti, compresi, accettati, significati diremmo, e solo dopo, magari, modificati o anche cambiati.
Quando intuiscono che se fanno alcune cose in un certo modo è perché c’è una buona ragione che li riguarda.
Quando realizzano che se qualcuno mi dice di non fare una cosa come la faccio io, mi sta chiedendo di essere un’altra persona, non mi sta dicendo solo che sto facendo una cosa sbagliata, mi sta dicendo che SONO sbagliato!
Quando sentono che il disagio di dover applicare regole stabilite da altri senza comprendere se sono compatibili con sé, non è segno della loro imperfezione ma di un modo assurdo di pensare alle Persone.
Quando accadono queste cose, le sento respirare come se fossero state in apnea per anni.
E mi dicono “ah! come mi sento più libero e leggero!”.
E sono sempre ammirato da queste persone quando vedo con quanta velocità sviluppano committenza e si fanno carico dell’inefficacia dei loro comportamenti quando hanno avuto prima l’opportunità di accoglierli e comprenderli,
quando prima hanno avuto l’opportunità di accoglierSI e comprenderSI…
Com’è chiaro e lampante che accettare non vuol dire approvare, comprendere non significa condividere.
Che non c’è bisogno che arrivi qualcuno a spiegare la teoria e a dirgli che alcuni loro comportamenti non sono efficaci.
Lo sanno già, e sono disposti a sopportare il peso del cambiamento.
Ciò che è insopportabile è il giudizio.
Ciò che il consulente-gigione di turno chiama “paradiso” (la sua teoria) prevede che la mia condizione si chiami “inferno”.
E io che ci vivo da anni devo proprio essere un cretino.
Invece ciò che sono, che ho fatto e che faccio, e ciò che imparerò ad essere, si chiama “la mia Vita”.
E il cretino sei tu, nonostante le royalties per i tuoi libri “famosi”.